Il calascione per non morire, storie di magrezza
Ma il calascione? Ma che mi viene in mente, ma che inutile pensiero, o voglia? Qui ho difficoltà a trovare un poco di pane che non sia gonna, che non sia con i buchi di un respiro dell’universo.
Il calascione è pane, stessa pasta, ripieno di formaggio, salumi, ricotta e mi piaceva caldo. Nonna me lo faceva per me solo, come se avessi una esclusiva nell’universo con le cose che piacevano a me. Una scelta accurata, pane che sapeva di pane e ripieno… non arrivava su mia ordinazione ma su espressa e inattaccabile volontà di nonna. Ero, allora, magro allampanato, più che cristiano in avanzo del tempo, uno scheletro. Ai raggi X mi avrebbero escluso perché già dal vivo si vedeva tutto, allora all’ingrasso dovevano metterci l’aggiunta di mille pasticche ma bisognava, o bastava, mangiare.
Me lo faceva nonna e poi, poi ci vuole amore per queste cose e l’amore che unisce una nonna ad un nipote ora i nipoti neanche conoscono le nonne, le nonne hanno vaga idea dei nipoti. Per me no, mio padre era figlio unico io unico nipote maschio con sorella in salute, lei era votata a me ed io avevo bisogno di cure e quindi giusto per lei. Il calascione era un gesto di generoso amore di cui mi resta il ricordo del sapore. Chi è stato amato di amor ha nostalgia, ma non era cosa mia allora eravamo tutti, o tanti, nipoti era quasi un mestiere, con pochi doveri, e milioni di coccole.
Si ho mangiato il calascione e non lo mangio da tempo, questo ho scritto perché anni fa Roberta Filigenzi pubblicò la foto di un calascione e, inviandola, mi chiese: da quando non lo mangi? Da quando non ho quelle mani amorose che me lo portavano caldo e sguardi orgogliosi si assicuravano che trasformassi quella bontà almeno nella pelle per coprire le ossa.
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