Le madri di Sezze delle mezze sedie (sedicciole)
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Umido che mi viene a trovare, il sole fa “bollire” questa acqua sospesa e sulla faccia mi segna ogni angolo, gocce. L’aria non è calda ma fa bolle che non si respira.
Le donne del mio paese cominciavano di questi tempi a oziare cercando l’incrocio che fanno i muri e le aperture al movimento dell’aria, cercavano venti nella bonaccia. Venti artificiali alla bonaccia di questo tempo.
Si mettevano con piccole sedie impagliate, mezze sedie, in sottovesti di seta che gli uomini non c’erano e quelli che erano, erano bambini, che ancora non sapevano.
I fazzoletti asciugavano sudori, e le parole ammazzavano il tempo. Tempo lungo di discorsi troppo saggi per esser veri, mai banali per i sotto intesi ad ogni banalità. Parlavano, quelle donne, con una lingua cifrata, come geroglifici senza la stele di Rosetta per chi non era di lì, o troppo piccolo per entrare lì.
L’umido divenne allora, e da allora, il mondo dei segreti la porta di una cassaforte di 1000 misteri. E le parole carpite erano pezzi di vangeli apocrifi tutti da scrivere nella devozione manifesta di quelli ufficiali.
Quelle donne erano matrone romane, erano custodi di saperi collettivi e trame di famiglia. Conoscevano ogni lutto per questo avevano il testimone della Storia, e non potevano fare perché il loro “da fare” era l’unica cosa che si deve fare, tramandare la vita e dare alla vita il suo sapere. Non allevavano “mammocci” ma istruivano, costruivano, umanità. Stabilivano futuri, capivano le virtu’ e non celavano difetti, e sapevano che virtu’ premiare e che errori celare.
Tanto che difetti non c’erano ed ogni amore aveva il suo amare, mai diversi.
Avevano i Lego della vita, mattoncini perfetti da secoli. L’umido verso sera lasciava il posto ad una leggera brezza dal mare che riportava qui gli uomini così impaludati che le avevano pensate stanche di tanto da fare per quanto erano rimaste immobili al “fare”. Tornavano che la brezza li precedeva come a togliere il sipario dell’umido. Perfette rimandavano alla brezza il ragù, per il tempo di vederli andare via e donarli al “di vino”, che era ascensore per fare delle loro disgrazie la grazia di illudersi di essere vivi anche loro.
Equilibrio di secoli immutabile, prima del condizionatore. Perché vi racconto di questo? Stamane ho avuto caldo, umidità sulle guance e le ho viste accanto a me con ingenui ghiaccioli al limone usciti da formine che diventavano aiuto al bere e asciugavano il sudore alle nostre corse. Si le ho viste, ora sono sicuro stanno cercando la corrente d’aria in qualche posto che non so e guarderanno la loro opera, perché qui, dove sono nato io, si tramanda per madri, madri che non smettono mai di esserlo e sono madri di madri, madri di madri, madri di ogni “mammoccio” nessuno orfano.
La notte torneranno gli uomini che sanno di vino, poi al mattino lasceranno la scia di illusioni donate da bicchieri in serie e… loro, le madri, riprenderanno la scena per il tempo della luce.
Nella foto Za Pippa, mia nonna. Se scrivo e vi rompo le palle è tutta colpa sua
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