Gigliola
Tra un mese sarà il 25 novembre e celebreremo la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
La violenza ha molte forme ma una sola base, la negazione della Persona nella sua interezza, con la propria personalità, diritti e soprattutto autodeterminazione.
Oggi voglio raccontarvi la storia di Gigliola.
Gigliola Pierobon, figlia di una famiglia contadina di San Martino di Lupari, un paese in provincia di Padova, probabilmente non immaginava di poter contribuire a cambiare la storia dell’Italia e la vita di tante donne.
Nel 1967, a soli 17 anni, era rimasta incinta di un uomo adulto che si era poi dileguato. A quell’epoca, in Italia, era ancora in vigore il cosiddetto Codice Rocco, il codice penale fascista redatto nel 1930 che considerava l’aborto come un reato «contro l’integrità e la sanità della stirpe». La pena era la reclusione da 2 a 5 anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto che alla donna stessa.
Chi aveva le possibilità economiche si rivolgeva a cliniche private abusive o andava all’estero, per tutte le altre c’erano le mammane.
Così Gigliola, di soli 17 anni, si ritrovò su un tavolo da cucina, senza anestetici né antibiotici e con un dolore immenso nell’animo e nel corpo che la fece svenire.
Come accadeva spesso dopo tali pratiche, anche Gigliola ebbe un’infezione. Per curarla, si dovette rivolgere al suo medico di famiglia.
Seguirono interrogatori e indagini, nel frattempo lei si era sposata ed aveva avuto una figlia. Nonostante questo fu sottoposta ad una perizia ginecologica che a quel punto non aveva più nulla di scientifico. Gigliola stessa la definì come una “violenza umiliante”.
Nel 1972 Gigliola Pierobon ricevette dal tribunale di Padova una notifica di rinvio a giudizio.
La donna però aveva finalmente capito di non essere sola. Tante, troppe donne avevano vissuto la sua stessa terribile esperienza.
Affrontò il processo come rea confessa. Gli avvocati improntarono la difesa al combattere una legge sbagliata. Presentarono studi scientifici e le testimonianze di politici, intellettuali, psichiatri, giornalisti, medici.
I giudici rigettarono quanto presentato e condannarono Gigliola Pierobon ad un anno di carcere.
Tuttavia le concessero il perdono giudiziale perché si era spostata e aveva avuto una figlia, garantendo così “l’integrità e la sanità della stirpe”.
Al perdono Gigliola reagì dicendo: «io il perdono non l’avevo chiesto: non mi sento colpevole. Quindi non sono pentita. A stabilire il mio pentimento è stata la legge».
A conclusione del processo sembrava non esser cambiato niente. Invece si scatenò una grande mobilitazione sociale.
Saranno necessari ancora tanti anni, tante donne morte e tante lotte per arrivare alla legge 194 del 1978, che consente alla donna, nei casi previsti, di poter ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica. Una legge difesa anche con il NO degli italiani ad un referendum abrogativo nel 1981.
Neanche immaginava quella ragazzina di 17 anni che avrebbe squarciato il velo dell’omertà sugli aborti in Italia e invece ha contribuito a scuotere le coscienze e a dare voce a milioni di donne.
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Manuela Fantauzzi
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